Human Centered Design, Visual Storytelling, facilitazione grafica … quando l’arte e il design si mettono al servizio delle organizzazioni, che immaginano un cambiamento positivo nel mondo. Parliamo con Piera Mattioli, Service Designer indipendente, di questi strumenti per collegare persone, valori, idee e innovazione nel no profit.
Sei una Service Designer, Facilitatrice e Visual Storyteller, ci puoi raccontare un pò il tuo lavoro?
Io aiuto organizzazioni di ogni tipo a risolvere problemi complessi a livello sistemico, coinvolgendo le persone, collaborando per immaginare come risolvere questi problemi e per creare insieme delle soluzioni.
Lavorando soprattutto su problemi sociali, collaboro con organizzazioni come ONG per risolvere in modo innovativo i problemi che motivano la loro azione, e in questo processo la visualizzazione ha un ruolo chiave, perché la prima parte del cambiamento è visualizzare.
Visualizzare significa dare forma a idee e conversazioni, così le persone sono in grado di capire, di collaborare e di co-creare insieme, perché stanno guardando la stessa immagine, stanno immaginando insieme e sono così allineati sullo stesso discorso.
Nella fase di sviluppo di un’idea, la visualizzazione aiuta a rendere tangibile cose che sono ancora immateriali. Io da designer, ho per così dire “il potere della visualizzazione” e lo utilizzo per aiutare gruppi di persone a visualizzare idee e conversazioni che li muovono verso il cambiamento che desiderano.
La visualizzazione o il prototipo è una fase molto importante in ogni processo di innovazione, qui si testano le idee, si ricevono feedback, per poi “aggiustare” queste idee che si stanno sviluppando e poi implementarle nelle comunità dove stiamo lavorando.
Quando hai deciso di lavorare in questo settore?
Quando studiavo service design al Politecnico di Milano, abbiamo ricevuto una visita di Carla Cipolla, che ha ottenuto al Politecnico un PhD in Design, e che ha mostrato agli studenti come il service design può essere applicato alle favelas in Brasile per migliorare la gestione dei rifiuti. Un progetto incredibile che mi ha fatto pensare: “io voglio fare questo nella vita”.
In seguito ho fatto un corso post-laurea di Amani Institute in Social Innovation Management e lì mi si è aperto un mondo, ho cambiato il mio modo di vedere il mondo no profit e l’innovazione sociale, cambiando modelli mentali e pregiudizi che avevo prima, e questo mi ha incoraggiato a provare in questo settore.
Che tipo di lavoro fai con le organizzazioni?
Io lavoro con grandi organizzazioni, e quando vuoi sviluppare un’idea innovativa il primo passo è sempre, in un certo senso, trasformare l’organizzazione stessa. Come designer io posso sviluppare un’idea, ma per far sì che l’idea o la nuova soluzione sia implementata bisogna lavorare all’interno delle organizzazioni, a volte anche cambiando il modo di lavorare, le metriche utilizzate per valutare il successo, e/o elementi stessi della cultura dell’organizzazione. Per questo è importante fare processi collaborativi, solo coinvolgendo le persone che formano l’organizzazione si può veramente creare una trasformazione.
Se nel mondo corporate, un’organizzazione può voler innovare, creare servizi innovativi per aumentare le revenue o migliorare l’esperienza dello user finale, nel mondo non profit le sfide si legano alla creazione di un mondo più sostenibile, di migliorare le condizioni di vita delle persone e queste sfide sono state il motivo principale per decidere di concentrarmi nel lavoro con il mondo no profit.
Quando lavoro con un’organizzazione, a seconda del livello della sfida, dell’innovazione sulla quale si vuole lavorare, collaboro con membri del direttivo e/o con gli operatori sul territorio, dipende molto dall’obiettivo. Ovviamente poi quando lavori su tematiche sociali anche la questione culturale è molto forte.
Ad esempio ho lavorato Rainforest Alliance, che certifica agricoltura sostenibile in tutto il mondo e in tanti Paesi diversi, con il team di innovazione, sviluppando un “innovation playbook”, ovvero una guida per implementare un processo di innovazione human centered, in tutte le fasi di lavoro dell’organizzazione. Ciò significa impegnarsi ad esempio a scrivere proposte di progetto in un altro modo, includendo tempi e risorse per fare ricerca, definire l’idea, e testarla facendo prototipi.
Abbiamo cercato di trasformare questo modo di lavorare, creando strumenti che potessero comunicare a tutte le persone dentro l’organizzazione come lavorare in modo diverso, con tantissimi incontri e workshop, per fare in modo che tutti si sentano ascoltati e partecipi dei cambiamenti. Questo è l’unico modo per far sentire ai componenti dell’organizzazione, che sono davvero presi in considerazione, che sono visti come degli esperti, in modo tale che poi loro sentano ownership, sentano loro il nuovo processo che si sta creando.
Dato che Rainforest Alliance lavora in molti Paesi, in questo caso la nostra strategia è stata fare un training a tutte le persone che lavoravano sul campo, insegnare loro come fare le interviste qualitative che avevamo immaginato e come riportare poi a noi tutta l’informazione, per poter sviluppare delle idee. Essendo per metà argentina e parlando quindi spagnolo come madrelingua, ho potuto però lavorare direttamente con comunità ispanofone, ad esempio all’interno del progetto ho lavorato in modo collaborativo con una comunità colombiana.
Come si possono attivare cittadini e comunità attraverso l’arte?
Se il design thinking ha il potere di far immaginare, e progettare collaborativamente, l’arte permette di iniziare a creare. Spesso tra l’immaginazione e la creazione di qualcosa c’è un processo di implementazione che può portare via tantissimo tempo, però io penso che si possa utilizzare l’arte per iniziare a creare immediatamente le proprie visioni.
L’arte che piace fare a me è arte collaborativa, l’arte che faccio principalmente è creare murales, quindi è visualizzazione in tutti i sensi. Tra i progetti più soddisfacenti di questo tipo per me ci sono i lavori realizzati a Matera nel Sud Italia e a Madeira, in Portogallo.
A Madeira il mio cliente era il porto e ho realizzato un murales con tutte le specie marine locali. Abbiamo raccolto tantissime informazioni dai ricercatori del posto, abbiamo creato dei totem informativi per parlare dei problemi dell’oceano, delle specie locali e poi gruppi di adulti e anziani venivano a pitturare con me qualche ora e poi andavano ad ascoltare una lezione della Lobosonda Whale Watching. Si tratta di un’esperienza d’arte collaborativa con le comunità, per lavorare su specifiche tematiche, in questo caso la tutela della fauna marina locale.
A Matera ho lavorato per Agoragri, un parco urbano cittadino. Qui abbiamo organizzato all’inizio dei workshop per immaginare come le persone volevano che si trasformasse questo parco. Ascoltando le voci dei bambini, le loro idee sul parco hanno portato all’idea del disegno per il murales, che abbiamo pitturato tutti quanti insieme. Tutte le domeniche in questo contesto, abbiamo organizzato eventi di comunità, con la partecipazione dei bambini e delle loro famiglie.
Quando la creazione di un prodotto artistico è collaborativo si crea comunità, perché le persone sentono di essere parte di qualcosa, di contribuire allo sviluppo del posto, che quindi sentiranno loro. Io lo vedo anche come un modo per lavorare delle tematiche, trasmettere dei messaggi, in modo diverso.
La società in cui viviamo non promuove in noi l’uso della creatività, e farlo, promuovendo questa cultura di sperimentazione, spingendo le persone a fare cose creative, è un pò la mia sfida. Perchè l’arte è un modo per creare e ogni cambiamento nasce dalla visualizzazione, che è davvero il primo passo per iniziare un cambiamento. Quindi per me l’arte è un modo per visualizzare questo cambiamento, ma anche per far vivere il cambiamento alle persone.
Per me il punto importante sia nel design, sia nell’arte, è l’esperienza di essere parte del processo di creazione, con la collaborazione e con la co-creazione, per me questo è l’unico modo per trasformare il mondo.